domenica 31 maggio 2009


Potresti dire


che la vita è una maschera,


una maschera bianca


che dondola


appesa al ramo di un ciliegio in fiore.


Potresti dire


che è il vento a cullarla


e a farla frusciare insieme alle foglie verdi.


Potresti dire


che la vita è una musica,


una musica indistinta


che proviene da lontano,


da là giù,


forse dal mare.


Potresti dire


che è il vento a portarla alle tue orecchie,


a fare di quella musica un canto dolce.


Potresti dire


che il vento sei tu,


che suoni, culli, dondoli,


soffi e fai rabbrividire.


Solo tu


puoi essere il vento.



Foto dal web

MI DICONO CHE HO LO SPLIN



Sono le 3 di notte e sono sveglia. Ho un sonno che gli occhi non riescono a stare aperti, ma sono sveglia. Lui mi dorme accanto e io non posso dormire. Da quanto tempo non stavo più così? Il mal di stomaco mi fa venire ansia. Mi ricorda uno dei peggiori periodi della mia vita. Senza mai dormire, aspettando che mi passasse la nausea e la voglia di vomitare anche fino alle 4 o alle 5 di mattina. Mi fa venire ansia. Un po' come quando da piccola non riuscivo a prendere sonno e in casa mia tutti dormivano. Le luci spente nella stanza dei miei genitori, i rantolii di mia sorella con le adeonoidi ad indicare che era caduta in un sonno profondo. E guardavo l'ora segnata di rosso della radiosveglia e mi mettevo a piangere. Non riuscivo a dormire mentre tutti gli atri dormivano. Mi innervosivo tantissimo ritardando sempre di più il momento della tranquillità del sonno. Stanotte mi sono sentita così. Odio sentirmi così. Con le palpebre pesanti, la testa ciondola e non riuscire ad addormentarmi. Mi sono alzata dal letto, mi sono seduta sul bordo della vasca da bagno e con specchietto e pinzette ho iniziato a farmi le sopracciglia. Sembrerà strano, ma è un metodo che mi rilassa. E intanto aspettavo che venisse il momento buono per vomitare. ma non è venuto. Odio vomitare. E mentre sono li, che cavo i peletti con cura, uno a uno, mi chiedo cosa c'è che non va. Perchè tutta questo male, questa inquitudine? Cosa non mi fa dormire? Cosa mi pesa sullo stomaco come un macigno? Cosa mi fa dire che non sono felice? Ci sono volte che dico che amo la vita, che vedo il mondo a colori, che apprezzo le cose che mi stanno intorno, le piccole cose. Ci sono volte che non riesco a vedere oltre il mio male, oltre a questa sensazione di abbandono che mi sento sulle spalle. Eppure non sono sola, eppure ho persone che mi capiscono, che mi tengono la testa sulla loro spalla. Eppure se mi si chiedesse "cosa vorresti, adesso, per star bene?"...io non lo saprei dire. In quel momento non sento niente che potrebbe rilassarmi, che potrebbe tirarmi su il morale, che potrebbe farmi passare  questo fastidio persistente allo stomaco. In quel momento penso solo che vorrei chiudere gli occhi e non svegliarmi più. Perchè se c'è una frase che continua a girarmi in testa è "perchè non c'è un giorno in cui io possa dire di essere stata bene?". E allora mi chiedo quanto ancora dovrò andare avanti così, quanti giorni, mesi, anni, dovrò passare con questa sensazione?! Quanti?!. Non sono una persona che si toglierebbe la vita di sua spontanea volontà. Almeno, non credo. Non ora. Resisto. Però credo che non farei niente per combattere se un giorno questa dovesse iniziare a venire a meno. E' bruttissimo da dire. E' bruttissimo perchè sono consapevole che intorno a me e neanche troppo lontano, c'è chi sta peggio, c'è chi pagherebbe qualunque cosa per stare come me, per avere quello che ho io, per non sentirsi solo. Ma sola io mi ci sento. Mi ci sento adesso, che questa casa è silenziosa e vuota. Adesso che i gatti si sono appisolati sul divano. Lui mi dice che ho lo splin. Io lo splin ce l'ho sempre avuto. E se c'è una cosa che mi scoccia in tutto questo è coinvolgere anche lui nel mio splin. Vorrei tanto mia mamma in questo momento. E' assurdo che una come me, che predica l'indipendenza, a volte non possa ancora fare a meno della figura materna. Eppure avrei bisogno di lei. Di dirle che sto male, che faccio fatica a fare un passo senza avere paura. Senza avere paura poi di cosa? Io non lo so di cosa ho paura. Vorrei che adesso lei fosse qui e mi dicesse di smettere di piangere e mi prendesse la testa tra le dita massaggiandomi le tempie per farmi calmare. La verità è che non posso. Non posso aggiungere altri pensieri a quelli che già ha. Non posso dirle che sto male quando lei stessa sta male. Non posso dirle di prendersi cura di me quando lei stessa ha bisogno di qualcuno che si prenda cura di lei. Non posso. Allora mi limito a dirle che ho mal di stomaco e che non vado a pranzo. Non è giusto che io mi faccia vedere così. Non è giusto che capisca che sto male. Non adesso. In altri casi lo avrei fatto. Adesso no. Adesso scrivo e mi sfogo qui. Piango da sola che tanto è come piangere sulla spalla di qualcuno. Aspetto che passi come ho sempre fatto. Aspetto che passi e basta.


Foto dal web

domenica 24 maggio 2009


Lo sguardo


a fissare lunghe dita di piedi bianchi


inondati dal sole.


E ricordi,


di estati buone,


di odore di salsedine.


I capelli bagnati


lasciati ad asciugare al vento.


Il caldo,


quel caldo che si sopportava bene,


di granelli incandescenti che non bruciavano.


Palette, secchielli colarati,


i sandali blu.


Cappellini chiari a proteggere dal sole.


Ghiaccioli all'anice


di un azzurro rinfrescante.


E sabbia sotto le unghie.


Ricordi,


di vita che era vivere


e sopravvivere non significava nulla.


Foto dal web

venerdì 15 maggio 2009

METTIAMO IL CASO

 


Mettiamo il caso che oggi sia il tuo compleanno. Mettiamo il caso che tu mi abbia detto che non vuoi regali e mettiamo il caso che io, invece, abbia voluto farteli. Mettiamo che uno è un regalo tangibile, un po’ boomerang, lo stesso regalo che in un impeto di rabbia, una volta che mi avevi fatto scoppiare la vena, ti ho detto di averti fatto. Mettiamo il caso che quello si il regalo ufficiale, che ovviamente tu non volevi fino a quando non ti ho detto cosa fosse. Però da quando hai saputo cos’è non hai più detto che i regali non li volevi per il tuo compleanno. E allora quello è il regalo ufficiale. Quello non ufficiale, invece, è questo. Un post come tanti altri che ho scritto per te…lo so che non è che sia una cosa originale, che non è tutto sto granché come post. Però è tutto quello che so fare. E lo scrivo per ringraziarti. Grazie perché hai deciso di nascere e di rimetterti a cercarmi, ancora, dopo tante volte che lo avevi fatto. Grazie perché questa volta ci sei riuscito e mi hai ritrovata. Grazie perché è tutto quello che so dirti. Se c’è un regalo ufficiale non è per una questione di festeggiamenti…è un modo per dirti ancora quanto mi abbia fatto piacere averti anche in questa vita. E se tu avessi deciso di non rinascere, tutto questo non sarebbe successo. Grazie Grazie Grazie.

lunedì 11 maggio 2009

PESSOA NE SA A PACCHI


"Non possiamo distinguere se certi tormenti profondi, per la loro essenza sottile e ambigua, appartengono all'anima o al corpo, se sono il malessere causato dal fatto di avvertire la futilità della vita, o l'indisposizione che deriva da un abisso organico: lo stomaco, il fegato, il cervello. Quante volte mi si appanna la consapevolezza volgare di me stesso, in un torvo sedimento di inquieta stasi! quante volte mi duole esistere, con una nausea a tal punto incerta che non so distinguere se si tratta di tedio o di un sintomo di vomito! Quante volte...Oggi la mia anima è triste fino al corpo. Tutto me stesso mi duole: la memoria, gli occhi e le braccia. In tutto ciò che io sono c'è come una specie di reumatismo. Sul mio essere non ha nessun influsso la luce limpida del giorno, il cielo di un grande azzurro puro, l'alta marea immobile di luce diffusa. Non mi lenisce affatto il lieve soffio fresco autunnale, come se l'estate non passasse, che dà tono all'aria. Nulla è nulla per me. Sono triste, ma non con una tristezza definita, e nemmeno con una tristezza indefinita. Sono triste là fuori, nella strada dove si accumulano le casse"


Tratto da: "Il libro dell'inquietudine di Bernardo Soares"-Fernando Pessoa


Credo che questo stralcio di questo libro che sto leggendo grazie a Kaba, perchè me l'ha regalato lui per il mio compleanno, con una dedica nella prima pagina, quella bianca, descriva fin troppo bene quello che sento io. Credo io stessa non avrei saputo dirlo meglio. E visto che lo ha saputo dire bene lui, lo lascio dire a lui...però ecco, in sostanza, io è da un po' di giorni, che sto così.

domenica 10 maggio 2009

PANE AL PANE. VINO AL VINO

PARLIAMOCI CHIARO


A volte certe riflessioni sono impossibili da evitare. Credetemi, le eviterei volentieri, soprattutto in questo periodo qui, ma non ce la faccio. Anzi, forse è proprio perchè sono in questo periodo che non posso fare a meno di queste riflessioni. Se rileggo gli ultimi 10 post, almeno 8 centrano il solito argomento. E' che questa cosa della morte a me fa pensare parecchio. E così ieri sera, in un sabato di solitudine, mentre guardavo "Lost", mi sono messa in terrazzo a fumare e nel frattempo pensavo a quale potrebbe essere la morte meno traumatica. Nel senso che, di base, esistono due tipi fondamentali di morte. Quella fulminea e quella lenta. Analizziamole. Vediamo un po' i pro e i contro dell'una e dell'altra. Però guardiamo le due tipologie dal punto di vista di chi resta, non di chi va. Visto che io non sono quella che se ne sta andando ma quella che resta, la vedo nell'ottica di chi rimane.


La morte fulminea. Quella che non ti da il tempo di prepararti. Quella del tipo "Ci vediamo domani" e invece no, perchè domani non esiste. Domani era l'ultimo giorno. La morte fulminea. Quella tipo da infarto o da incidente. Quella per cui si incolpa il destino nella maggior parte dei casi. Quella che non ti lascia spazio. E questo tipo di morte qui, io non lo so, ma insomma, credo si faccia fatica ad accettarla. Credo che emergano mille domande, che in quel momento avremmo tante cose da dire alla persona che se ne è andata. Ma è troppo tardi. E' la morte delle cose taciute. Tenute per sè. La morte che porta alla mancanza improvvisa. All'assenza inaspettata. E adesso? Ci si chiede. Adesso come sopravviviamo? Il bello di questo tipo di morte è l'assenza di agonia di colui che se ne va. Il bello per chi resta è vivere nell'ignoranza, nel non pensare, nel non prepararsi, nel non vedere l'altro soffrire. Vivere nella consapevolezza che potrebbe succedere sempre, che domani potrebbe essere l'ultimo giorno ma, nello stesso tempo, avere la speranza che potrebbe anche non essere così. Non aspettare. Non attendere qualcosa ci libera da un peso. Il peso dell'attesa, appunto.


La morte lenta. La peggiore forse. Per chi va e per chi resta. Quella che poi si dice che eravamo pronti. Non è vero, alla perdita di una persona a cui si tiene non si è mai pronti! Per quanto tempo ci sia concesso per metabolizzare l'idea della morte di quella persona, quando succederà, il dolore sarà troppo intenso e probabilmente molto più forte di quanto avessimo previsto. Enfatizzato dal fatto che, nel prepararci, non abbiamo fatto altro che soffrire in anticipo, concedendoci una doppia dose di dolore. Il lato buono? Lo spazio. Il tempo per stare più vicino a chi sta per andarsene, per dire tutto quello che avremmo sempre voluto dire, per far capire quanto teniamo a questa persona. Il tempo per poterla abbracciare una volta in più, il tempo per inserire in memoria il suono della sua voce, di ricordare ogni gesto che fa, di non dare più niente per scontato. E sapere che ogni cosa potrebbe essere l'ultima...l'ultima risata, l'ultimo sorriso...l'ultimo abbraccio. L'attesa. La snervante attesa di arrivare al dunque, di aspettare la fine. L'angoscia ad ogni squillo del telefono, vedere spegnersi lentamente ogni caratteristica che contraddistingue la persona che ci sta per lasciare. Non sopportare i cambiamenti, le facce finte e di circostanza, cercare di nascondere lacrime e dolore, indossare una maschera fino a quando non si rimane soli. La morte lenta. Che dà tempo anche a chi sta per andarsene di capire, di rendersi conto, di intuire che non resta altro da fare che aspettare. Aspettare. L'inutilità, quanto ci si sente inutili e impotenti davanti alla morte che non si può evitare. La paura. Vedere in faccia la paura di chi non sa cosa l'aspetta dopo. La coscienza. Il peso più grosso che ci portiamo dentro è quello di sapere.  

sabato 9 maggio 2009

QUALCHE VOLTA è SOLO UNA QUESTIONE DI VOCI

foto dal web


A volte basta un niente a smuovere quello che abbiamo dentro, le sensazioni assopite, il groviglio di emozioni che teniamo ben legato sopra al diaframma. Ci sono giorni che siamo così tristi da diventare apatici, giorni che l'unica cosa da fare sarebbe piangere per poter sciogliere quel groviglio. Ma non ci riesce. Siamo attraversati da un senso di staticità, siamo sommersi in una bolla di simil-cinismo. Crediamo di essere diventati forti, crediamo che la nostra corazza si sia adeguatamente indurita, quasi calcificata. E quasi quasi ne andiamo fieri. E poi basta un niente. Una cosa semplicissima. Basta la voce di una creatura minuscola, aggrappata alla mano del nonno, una creatura che non abbiamo mai visto, mai incontrato prima, che ci incrocia mentre camminiamo sul marciapiede, una vocina incomprensibile ma comunque chiara. Quella voce ci guarda negli occhi e dice "Dada". E in quel momento capiamo un bel po' di cose, si aprono le porte e le risposte alle domande di ogni giorno, in quell'istante, appaiono così nitide! Salutiamo la voce, con una voce che non ha dentro altrettanta innocenza, con quella voce in falsetto che si usa, erronamente e stupidamente, per comunicare quando si parla con delle voci piccole come quella che ci sta davanti. E la voce minuscola passa. Noi passiamo e le diamo le spalle. Poi, per curiosità, ci voltiamo indietro e vediamo che la creatura ci segue con lo sguardo. Monitorizza ogni nostro movimento, ogni passo. "Chissà a cosa pensa. In questo preciso momento io sono entrata nella sua vita e lei nella mia." Le sorridiamo. Ci sorride a sua volta. Chiama ancora "Dada", ma ormai quella voce è lontana, inafferrabile quasi. Saliamo in macchina. Le mani a coprire tutta la faccia...e cominciamo, finalmente, a piangere.

domenica 3 maggio 2009

VIVIAMO DI POESIE...ALMENO, IO ORMAI VIVO SOLO DI QUESTO E POC'ALTRO


Io lo so che ormai i pochi lettori rimasti di questo blog si saranno stancati di tutte queste poesie che posto. Che poi, fortunatamente, non siano tutte mie, magari è un bene. Ma capisco anche che la poesia annoi...soprattutto quando si è abituati a leggere pezzi di vita vissuta di una persona...una persona che in questo caso sarei io. Non che io non abbia niente da raccontare, c'è una cosa, una cosa che mi fa talmente piangere in questo momento che non ce la faccio a raccontarvela, una cosa che mi fa un gran male e allora tappo i buchi con altre cose. Con queste poesie che a volte sono mie e altre volte no. Tappo i buchi con quelle parole che a me piacciono, che mi fanno ricordare che esiste anche un piacere di vivere. E la poesia è uno dei piaceri per cui vivo. Leggerle, scriverle...fa poca differenza.


E allora ecco, io questa sera ricopio qua sopra, su questo spazio bianco, una delle poesie a cui tengo di più, che ho scoperto poi da poco, ma mi è arrivata dritta dritta al cuore. Capisco che una poesia diventa mia nel momento in cui mi fa pizzicare il naso e lacrimare gli occhi. Capisco che una poesia diventa mia quando la mattina mi sveglio e non posso fare a meno di ripeterne alcuni versi. Questa anche se non l'ho scritta io, è mia. E' sempre del solito Pedretti, perchè adesso sto leggendo la sua raccolta. A dire il vero la raccolta ho già finito di leggerla, ma la tengo lì, in prima fila sugli scaffali della libreria, per andarla a sbirciare, di tanto in tanto, e rileggerne qualche pezzetto.



E' MOND L'è UNA PALìNA CH'LA S'INCRéPA


Nu fé cumè in America ch'i dà e' blètt mi mòrt


parché ch'i faza fighéura te salòt


un gatìn ch'e'mòr sla spònda d'un fòs


l'è la féin d'una stèla.


Un viaz in chèva a e' mònd


l'è gnént paragòun de paralétich


ch'e' va da e' lèt a la scaràna.


Tnémma dacòunt al razi di péss


tnémma dacòunt al mulaighi dla véita.


E' mònd l'è delichèd,


e' mònd l'è una palìna ch'la s'incrépa.


Tnémmal lizìr,


tnémmal sla péunta dal dèidi,


néun ch'a sém quéi


ch'u s tòcca muréi



(Per i non romagnoli)


IL MONDO è UNA PALLINA CHE SI INCREPA


Non fate come in America che danno il balletto ai morti


perchè facciano figura nel salotto


un gattino che muore sulla sponda di un fosso


è la fine di una stella.


Un viaggio in capo al mondo


è niente paragonato al paralitico


che va dal letto alla sedia.


Teniamo acconto le razze dei pesci


teniamo accoto le molliche della vita.


Il mondo è delicato,


il mondo è una pallina che si increpa.


Teniamolo leggero,


teniamolo con la punta delle dita,


noi che siamo quelli


che dobbiamo morire.



Foto dal web

venerdì 1 maggio 2009

PER IL PRIMO MAGGIO


Ultimamente mi esprimo in versi. Non so, non mi riesce di prosare. Riesco solo a poetare, per quanto le mie poesie non siano un granchè. Però è quello che mi viene da fare, la cosa più naturale. La stessa cosa vale per questo giorno di festa nazionale. Non mi viene nulla da citare se non una poesia di Nino Pedretti, già presente negli ultimi post. Un poeta della mia terra, con il sangue romagnolo, come il mio, con la lingua semplice e il cuore grande.


I VO' TOT


Al véli si zardéin


l'aèreo, i bastimént


i vò i giurnél


la radio, i treni.


I vò un dutòur par lòu


un mèstar par chèsa


un prit spécièl


ch'u i déga al mèssi.


I vò i galétt 'd campagna


la ragaza ad préim péil


ch'la i scréiva al lètri.


I vò éun ch'u i pètna


ch'u i téira sò i calzèun


ch'u i zènda i zigar.


I vò, i vò, i vò.


I vò da néun


ch'ai déma agli òuri ad nòta


e quègli ad dopmezdè,


i vò ch'andéma gubéun


ch'a géma bén


senza spudé te piatt.


I vo ènca e' sentimént


e' Paradéis, la bontà


e l'òs-cia ad dio


i vò la zénta pighéda


in déu sla scrivanea.


I vò t'a i déga ad sè


t'a i bèsa al mèni


t'a i faza da tapèid


quandè ch'i passa.


I vò tot:


e' chèul di burdéll


agli avmaréi


l'aria, i fiòm


i vò quel t'é te còr


i tu sògn


e quel t'a n pò dè vèa.


Da néun i vò tott


e néun a i darém


dla dinamite.


(Per i non romagnoli)


VOGLIONO TUTTO


Le ville coi giardini


l'aereo, i bastimenti


vogliono i giornali


la radio, i treni.


Vogliono un medico per loro


un maestro in casa


un prete speciale


che dica loro le messe.


Vogliono i galletti di campagna


la ragazza di primo pelo


che scriva loro le lettere.


Vogliono uno che li pettini


che tiri loro su i calzoni


che accenda loro il sigaro.


Vogliono, vogliono, vogliono.


Vogliono da noi


che diamo loro le ore di notte


e quelle del pomeriggio,


vogliono che andiamo a schiena curva


che diciamo bene


senza sputare nel piatto.


Vogliono anche il sentimento


il Paradiso, la bontà


e l'ostiadidio


vogliono la gente piegata in due sulla scrivania.


Vogliono si dica loro di si


che si baci loro le mani


che si faccia loro da tappeto


quando passano.


Vogliono tutto:


il culo dei bambini


l'avemaria


l'aria, i fiumi


vogliono quello che hai nel cuore


i tuoi sogni


e quello che non puoi dare via.


Da noi vogliono tutto


e noi gli daremo


della dinamite



Nino Pedretti - Da "Al vòusi"