Il nonno Gino è il nonno con cui ho vissuto per 10 anni. Il padre di mio padre. Il nonno Gino era un uomo di bassa statura, resa ancora più bassa dal fatto che camminasse costantemente gobbo. Colpa dell'ulcera e di tanti anni passati a lavorare nei campi. Non credo di averlo mai visto dritto. Era già così quando sono nata. Quando sono nata, tutti dicevano che assomigliavo al nonno Bruclin (così lo chiamavano, per via del cognome e del fatto che era piccolo). Ero gagia come lui, con la pelle rossastra e in testa avevo una peluria rossiccia e gli occhietti grigi come i suoi. Il nonno Gino, o Bruclin, che dir si voglia, con me non parlava molto. Anzi, credo che non parlasse molto con nessuno. Era uno di quegli uomini rudi di campagna, di quelli taciturni che dovevi stare attento a non farli arrabbiare. E infatti io e lui andavamo d'amore e d'accordo. Lui non mi parlava e io non gli parlavo. Questa cosa del non parlarci, però, non mi è mai pesata tanto. Lo capivo. Era cresciuto col concetto della famiglia allargata, aveva tantissimi nipoti, e un po' come i conigli, lasciava che questi nipoti crescessero liberi. In realtà, che io ci fossi o non ci fossi, per lui era uguale. Di certo non preferiva un nipote all'altro. Una delle immagini più nitide che ho di lui è quella in cui, seduto al tavolo della cucina, pucciava il pane secco in un bicchiere di vino rosso. E sotto al tavolo teneva un braciere, fatto col casco di un tedesco che aveva ritrovato dopo la seconda guerra mondiale. In questo casco metteva il carbone rovente appena tolto dalla stufa e ci appoggiava sopra i piedi. Era un uomo essenziale, il nonno Gino. Non sprecava parole, non sprecava cibo, non sprecava energie. Me lo ricordo mentre saliva le scale a fatica, appoggiandosi alla ringhiera per non cadere all'indietro a causa della gobba. Gli occhi piccolissimi e chiari, con i capelli bianchi e radi sulla testa...sembrava un bambino nato vecchio. Mi faceva tenerezza. Ogni tanto, il martedì mattina, si vestiva elegante, con la giacca marrone, la cravatta bordeaux e il cappello in tinta. Prendeva la sua bicicletta verde e andava al mercato. Non so dove trovasse le forze, però le trovava. Non aveva mai avuto la patente, sapeva guidare solo il trattore. In estate cercava un po' d'ombra sotto ad un ulivo, prendeva la sua sedia di legno e si metteva lì, a suonare la fisarmonica. Non era mica mai andato a scuola di fisarmonica, però la sapeva suonare benissimo. E io aprivo la finestra della mia camera e stavo in silenzio, ad ascoltare tristi e malinconiche melodie. Anche se non parlava mai, ho l'impressione che fosse un uomo profondo. Aveva poche conoscenze per dimostrarlo, a malapena sapeva scrivere. Però, la notte che mia mamma è uscita di casa per andare in ospedale per partorire mia sorella, lui è uscito dalla sua stanzina buia, ha acceso la luce e ha detto solo una cosa... “è una femmina”. Senza aggiungere niente, senza incertezze. Sapeva tutto lui. Aveva la chiave giusta. Poi una sera, una di quelle sere d'inverno che mia mamma aveva preparato per cena il pancotto, dalla cucina abbiamo sentito un rumore di pentole che cadevano e mia nonna che urlava. Siamo corse giù per le scale e abbiamo trovato mio nonno steso a terra. Ictus. Così, senza dire niente. Però era vivo. Solo che da quella volta non ha più potuto suonare la sua fisarmonica, non ha più potuto camminare per i suoi campi né salire le scale. E' rimasto per un paio d'anni a letto. E non si lamentava, non piangeva. Forse neanche capiva. Mi ricordo che mia mamma lo doveva imboccare e era stata contentissima quando aveva trovato al supermercato dei frullati di frutta già pronti. Un giorno sono andata da lui, gli ho stretto la mano...e mi ha detto “vai via”. Forse non si voleva far vedere in quello stato. Forse non gli ero mai stata simpatica. Però non me la presi...con lui non me la prendevo mai. Un giorno di maggio del 1994 il nonno Gino è morto. Al suo funerale avevo una maglia bianca con la scritta “Vive la vie” e dopo il funerale io e i miei cugini siamo andati a mangiare le ciliegie nel campo. Mia mamma non voleva che lo vedessi morto. Preferiva che lo ricordassi così, come lo avevo sempre visto in vita. Io allora non l'ho visto morto, però tutte le volte che mi viene da pensarlo non lo immagino vivo, ma lo immagino steso, con gli occhi chiusi, in quella bara.
Qualche anno dopo la sua morte, stavo guardando delle foto con mio babbo. Dietro ad una foto invecchiata, ingiallita, strappata agli angoli, un ritratto di gruppo, di quelli che si fanno alle scuole elementari, con tutti i compagni e la maestra, e mio babbo piccolissimo, ecco, dietro ad una di quelle foto li, c'era una poesia, scritta con stento, con una calligrafia che traspirava sudore, fatica, impegno. E sotto una firma. Quella di mio nonno. E così ho capito. Ho capito che molto persone, anche senza parlare, possono trasmettere molto di più di quello che si possa immaginare.
rapita da questa storia .
RispondiEliminai nonni poi,già solo a raffigurarseli tra i ricordi , fanno capitolo a parte..figurati a descriverli bene come sai fare tu
angelita: tu mi lusinghi :) tenevo molto a questo post. l'ho scritto qualche giorno fa, ma prima di postarlo me lo volevo godere un po' da sola. mi piace ricordare mio nonno...mi piace pensare che mi abbia trasmesso un dono...mi piace pensare che a volte sia lui a guidarmi. anche se non avevamo un gran rapporto. :)
RispondiEliminagrazie, stella
Non ho ricordi nitidi come i tuoi Cugina, però se penso al nonno Gino mi viene in mente una fotografia.
RispondiEliminaSempre curvo, con il suo cappello di paglia in testa, e con la mano tesa su un tavolo per non cadere. Rimarrà nei miei ricordi, mi dispiace solo di averlo conosciuto così poco.
Un abbraccio
Pam
Ps: mi piace la metafora dei conigli :D