
A volte mi chiedo come sia stato possibile che il mio corpo sia riuscito a sopportare tanto dolore. Credo che ci siano dolori peggiori di questo, anzi, ne sono proprio certa, eppure per me è stata la prima volta che ho provato qualcosa di così doloroso. A volte ripenso anche a i giorni che ho passato in ospedale, a quello che vedevo, tutti giorni dalla finestra. Lo stesso panorama, il solito cielo limpido e il bosco di abeti. Sembrava di essere in una di quelle cliniche di montagna, tipo quelle che erano state costruite per mandare la gente a respirare aria buona. Di aria buona, comunque, in un ospedale, non è che se ne respiri poi tanta. C'è sempre un senso di angoscia costante, anche se si è sedati. C'è sempre questo scorrere lento del tempo, questo tempo che non passa mai e la parola dormire è solo una parola. Che poi, ad essere sinceri e a dirla proprio tutta, io mi trovavo anche nel reparto più lieto di ogni ospedale, che poi sarebbe il reparto maternità. Lieto, poi, credo che sia una parola grossa. I nuovi arrivati urlavano come se li si stesse sgozzando, ad ogni ora si accendevano concerti sinfonici a più voci di “ueue”. Perchè piangono così? Che abbiano capito lo schifo di mondo dove sono andati a capitare? Ma li, era pieno di pance che camminavano lente per i corridoi, donne che si trascinavano dietro bagagli e dolori di doglie. Non le invidiavo. O forse si? Loro soffrivano per partorire la felicità. Io ho sofferto solo per partorire un'ovaia.
Per quattro giorni ho visto l'alba. Non che non avessi sonno, ma, come ho detto prima, la prerogativa degli ospedali è quella di dormire a sprazzi. Nel reparto in qui ero io, poi, non ve lo racconto. Le simpatiche infermiere che facevano il turno di notte, si perdevano in chiacchiere ad alto volume, anche ad orari improponibili. I campanelli suonavano, i bambini piangevano, e addio voglia di dormire. I giorni e le notti sembravano non passare mai. I minuti erano lunghi almeno tre volte i minuti normali e i libri da leggere sembravano tomi secolari e infiniti. La vista era sempre un po' appannata, la reattività cerebrale molto lenta. E quei vetri, quelle pareti, sembrava che ci fossimo sempre appartenuti. Anche se a volte ho il dubbio di non essere sempre rimasta nella stessa stanza. Bè, una volta mi sono spostata anche per forza, mi dovevano operare. E la storia dell'operazione non è facile da raccontare. Che poi mi viene l'ansia, anche se quello che dovevo fare era un intervento piccolo. Piccolo per modo di dire, piccolo per chi operava, magari. Non certo piccolo per me, che non è che vada sotto i ferri tutti i giorni, per dire. Per piccolo poi io intendevo che in due giorni sarei stata bene e sarei tornata a casa. Dopo quattro giorni ero ancora lì dentro e bene, di sicuro, non stavo. Allora provo a raccontarvi cosa si prova, cosa si prova quando tu sei già nella tua stanza, dalle 7 del mattino. C'è una certa angoscia che ti prende di tanto in tanto, ti stritola lo stomaco e comincia a farti piangere lacrime silenziose senza interruzione. Hai Guccini nelle orecchie, ma non riesce a risollevarti. Nella sala d'attesa, tua madre e il tuo ragazzo. E tu sei sola, a leggere o a provare a fare parole crociate per ingannare l'attesa e assopire l'ansia. E ad un certo punto, come un fulmine, arriva l'infermiera. “Valentina preparati”. Il camice che lascia scoperto il culo, la calza anti-trombo (doppio senso senza dubbio), la cuffietta e i pedalini blu. Pronti, via, si parte. Saluti mamma e fidanzato, non sai se c'è più terrore nei loro occhi o nei tuoi. Di certo tu ne hai tanto. Il corpo trema spasmi incontrollabili e l'infermiera scoglionata fa sbattere il lettino ovunque prima di riuscire ad infilarti in ascensore. Inizi a perdere la cognizione di ogni senso. E mentre ti mettono in un angolo e chiudono le tende, cominci a piangere tutta la tensione dell'ultimo mese. Stai li, e pensi che in Grey's anatomy fanno sempre vedere i pazienti già addormentati, questo limbo pre-operatorio nei film non esiste. A te, invece, lasciano quei 20 minuti per riflettere forse sul tuo destino, o solo per un'ulteriore barbarica attesa. Passa una vecchina spinta su una sedia a rotelle. Ti guarda e ti sorride. Le sorridi. E' vero? E' un miraggio? E' la nonna? Visto che ci sei, piangi un altro po', che fa sempre bene. E' freddo e l'odore è asettico. Hai paura. Una paura fottuta. Di cosa? Non lo sai. Hai solo una schifosissima paura. Ad un certo punto arriva qualcuno che ti sposta da un lettino all'altro e ti dice di stare attenta a non cadere. In quel momento non sai se preferiresti morire. L'ora x si avvicina sempre più. E' questione di minuti, forse addirittura di secondi. Tranquilla, di sicuro, non lo sei. Il chirurgo passa e di sfuggita ti saluta e ti chiede come stai. Non gli dici come stai, non lo sai neanche tu come stai. Lo preghi solo di fare il suo lavoro come si deve e poi ti giri dall'altra parte. Una flebo per cominciare ad assopirti e poi una mascherina davanti alla bocca. “Cominci a respirare, signorina”. Non ricordi neanche se hai respirato. Da lì in poi il nulla. Niente sogni, niente pensieri, l'oblio dell'etere e il senso di assoluto niente. Possono essere passate anche dieci ore, ma non te ne sei accorta. Ne sono passate solo due e un quarto quando senti le voci intorno a te che ti dicono “faccia un respiro profondo, signorina e si svegli”. Funzionano solo le orecchie. Il resto è fuori uso. Non ci sono i polmoni, non ci sono le braccia e le gambe sono immobili e se questa volta vomiti sei segnata per sempre. La nausea è fortissima e senti un male al fondopancia che sembra ti abbiano tolto tutto il cavabile. “Quante ovaie mi sono rimaste? Che ore sono? Vomito!”. “Abbiamo tolto solo un'ovaia, tranquilla. Sono le 14 e no, non vomita”. Vomiti? No, ma ci sei vicina. Il ritorno in camera è drammatico, l'infermiera è la stessa senza voglia per un cazzo di prima, anzi, adesso ha ancora meno voglia. Sbattocchia in ogni angolo, senti il dolore che si spande in ogni parte del corpo. Avevi paura solo dell'anestesia prima di finire lì sotto, il male non lo avevi neanche messo in conto. E invece adesso i conti con il dolore ti tocca farli. “E' un intervento semplice”, dicevano. Semplice il cazzo, ti viene da dire. Semplice da fare, non da sopportare. Torni in camera e vedi il tuo ragazzo con gli occhi lucidi, tua mamma lasciamo stare. Dormo, mi sveglio, parlo, sono morta, sono viva, sono qui. Pensi. Qualcuno viene a trovarti, parli un po' poi ti riassopisci. Hai tirato su le ginocchia e il male si è un po' calmato. Sarà anche per la flebo di morfina che porti attaccata al braccio sinistro. Si spengono le luci, nel corridoio rimane un alone blu e l'andirivieni degli zoccoli delle infermiere. I bimbi piangono. Tua madre è ai piedi del letto che ti bagna la bocca con un cucchiaino di tanto in tanto. Seduta su una sedia, con la testa appoggiata sul tuo letto, sai che non dormirà. E ti senti anche un po' in colpa. E allora cerchi di stare buona, di non lamentarti tanto. Provi a dormire. Dormi. La notte è lunga. Domani è un altro giorno.