domenica 28 febbraio 2010

"LE PRATICHE DEL DISGUSTO"




 


"....E anche la domenica, poi, quest'altra grande angoscia che tutti ci portiamo dentro, è diventata soltanto una galera. E' da svariati anni che ha smesso di essere una giornata ed è diventata soltanto una galera. La grande galera a porte aperte dalla quale è impossibile uscire perché dappertutto infatti ovunque vai, se è di domenica, è domenica anche lì dove sei andato. E io, ancora, più o meno precisamente mi ricordo quando mi è scoppiata la domenica. Era una domenica mattina e io avrò avuto più o meno diciannove anni. Mi sono alzato alle nove di mattina, e mentre bevevo un caffellatte mi è arrivato davanti il vuoto, mentre quella domenica mi esplodeva diventando impraticabile, e diventava la prima domenica impraticabile della mia vita. Mio padre che mi ha detto due o tre cose e io che sono tornato a letto un'ora dopo, senza sonno e senza voglia, in mezzo a tutto questo niente che mi è esploso addosso. Per la prima volta, e tutto d'un colpo. Perchè la domenica è una specie di giornata finta dentro la quale cercano di respirare dei polmoni veri senza riuscire a prender dentro l'aria vera perchè di domenica è finta anche l'aria. E tutto l'insieme ti produce addosso questa specie d'esperienza d'avere i tuoi polmoni di fianco e non di dentro e di essere condannato a stare ad ascoltarli funzionare per ventiquattro ore, e se c'è una cosa che è assolutamente impossibile è vivere sentendoti i polmoni di fianco invece che di dentro, perchè se c'è un di dentro del dentro e quel dentro esiste, è il polmone che è il dentro più di dentro che ci sia mai stato, e queste giornate spolmonate, una alla settimana, a senza polmone dentro, che ti arriveranno addosso perchè è destino che una volta alla settimana ti arrivino addosso, ammazzerebbero anche un santo. Per una vita non ho visto l'ora che queste mie domeniche finissero, con tutta quell'aria finta, totalmente al di fuori delle cose (difatti è chiaro che la domenica è rimasta di inerzia come residuato di un altro mondo, forse del mondo delle campane, che dopo i secoli dal suo strapotere ormai è morto e sepolto da almeno cinquant'anni). (....) Perchè la domenica non è più una vera giornata. Ci è rimasta soltanto la crosta di una giornata, questa crosta vuota senza niente dentro dove diventa finta anche l'aria. E tra l'altro c'è questa aria finta che se è brutto è peggio, ma come per miracolo se è bello, per esempio una bella domenica di aprile, è peggio lo stesso. "

DA: "Le pratiche del disgusto" - Ugo Cornia

venerdì 19 febbraio 2010

E SI CONTINUA A CRESCE








 








Il brutto del compiere gli anni è che ti vengono su un sacco di pensieri. Un po' come a capodanno, con la sola differenza che quando da 27 passi a 28 il suono inizia ad essere diverso. Sei tu che cresci, che cambi, non l'anno in sè. E allora inizi a pensare alla tua vita, a cosa hai mai combinato, a cosa stai combinando. Inizi a fare i conti con il tempo, con i sogni che non ha mai cercato di avverare, con il tuo modo di vedere la vita, sempre più pessimista e arrendevole. Perchè fino a quando si parla di crescere è un conto...ma adesso si inizia ad invecchiare. L'orologio biologico batte rintocchi all'impazzata, e il tic tac del tempo che scorre si fa sempre più veloce e intenso. Solo 10 anni fa avevo 18 anni. Dio, 10 anni passano così in fretta. A 18 anni hai un sacco di aspettative, di prospettive e visioni da cui guardare il mondo e il tuo futuro. Vorresti fare troppe cose, e non sai che da li a 10 anni non ne avrai fatta nessuna. L'importante è crescere, l'importante è diventare indipendenti. Il problema è che una volta che diventi indipendente dai tuoi genitori inizi a dipendere da quelle cose come il lavoro e la morale. A 18 anni non ce l'hai una morale...e non hai neanche un lavoro. E pensi che averlo risolverà tanti tuoi problemi. E' così, ma fino ad un certo punto. Fino a quando non ti chiedi..."Dov'è finito il mio tempo?". Già, che fine ha fatto il tempo? Passi 12 ore fuori casa, torni la sera stravolta, con mille cose a cui pensare, una casa da sistemare, i casini sul lavoro. E poi ogni tanto chiudi gli occhi e ancora fai dei progetti, sperando di averne la possibilità. Ti ricordi dei sogni che avevi a 18 anni, e pensi che sono gli stessi sogni che hai adesso. E se prima avevi il tempo di coltivarli e provare a raggiungerli, oggi non ce l'hai. E' il tempo, il suo intercedere costante. Il tempo che oggi mi dice che ho un anno di più. E continuate tutti a farmi gli auguri e mi fa piacere che vi ricordiate di me, ma perchè si festeggia?...Io ho solo un anno in più, io sto solo invecchiando. Non vedo perchè si debba festeggiare. 100 di questi giorni, mi hanno detto oggi! Come?! Ancora 100 di questi giorni?!...Non vogliamo mica scherzare! E' già tanto se arrivo integra ai prossimi 28....e non mi lamenterei!...

L'unica cosa per cui festeggio oggi è il compleanno di questo blog. Oggi compie 4 anni. Povero, piccolo blog...che ne ha viste di tutti i colori, che è stato abbandonato e poi ripreso, che ha parlato con le mie parole, che ha stretto le mani ai nuovi arrivati e salutato quelli che qui non ci sono più tornati. Buon compleanno blog...tu per ora cresci, ma non invecchi. 

mercoledì 17 febbraio 2010

"IL RACCONTO DI DE LEON: LE STELLE MAGICHE"










 








"Successe circa trent'anni fa prima della Grande Crisi Energetica - disse il marinaio De Leon. Ero imbarcato sulla Tintorera, l'astronave di Garcia Meza lo squalo. Il capitano, che sulla terra era stato un grande sterminatore di indios, visto che non c'erano più grandi regni da conquistare, s'era lanciato nello spazio. Aveva comprato con i frutti di anni di saccheggi questa astronave da guerra. Su di essa Garcia assaliva le astrocargo, le depredava, uccideva gli uomini e lasciava nello spazio una lunga scia di cadaveri. Gli piaceva il sangue, c'era da averne paura, era una specie di orco con baffi e barba nera, e vestiva sempre una tuta da guerra intarsiata di denti di squalo. Ogni tanto il capitano atterrava su un asteroide. Scavava dappertutto, lanciava bombe, distruggeva ogni cosa sul suo cammino alla ricerca di uranio, senza preoccuparsi di sapere se sull'asteroide c'era vita o no. 

-Se un essere vivente - diceva - non ha due belle tette, o una pistola carica, non lo prendo nemmeno in considerazione. - 

Un giorno, atterrammo su un asteroide vicino a Enceledus, un satellite Saturnino. Era un asteroide molto piccolo, tutto di roccia bianca, spettrale. A me toccò di uscire in ricognizione con una squadra; avevo piuttosto paura, sapete, era una delle mie prime volte. Stavamo percorrendo una zona impervia con i robocani da ricerca, quando il mio robocane alza la testae punta verso un buca nella roccia, una caverna. Entro e: beh, non credevo ai miei occhi: c'era un lago naturale dentro, bellissimo, con stalattiti altissime. Sul fondo del lago, limpidissimo, si vedevano delle stelle marine luminescenti: alcune erano bianche, altre nere, forse era la differenza di sesso, non so. Fatto sta che ce n'erano almeno duecento. Chiamai gli altri; anche il capitano arrivò, le vide ma non si mostrò per nulla impressionato. 

- Sono stelle marine. E allora! Sulla terra ce n'è a migliaia, sotto al ghiaccio. Che valore possono avere? - 

- Capitano - provai a dirgli - ma queste vivono su questo asteroide lontano. Forse sono diverse, potrebbero essere una grande scoperta scientifica - 

- Basta! Basta! - urlò lui - Uranio, cerco, non stelline! Prendetele, forse sono buone da mangiare! - E rise sprezzantemente. 

Beh, non ci crederete. Se le mangiò veramente quella bestia, e disse anche che erano proprio buone. Io, però, ne avevo nascoste una trentina in un sacco; appena fui sull'astronave le misi in una vaschetta d'acque e le nascosi. Ma un giorno il capitano fece un'ispezione e me le trovò. Mi fece dare cento frustate, ma la cosa non finì lì. 

Dovete sapere che il capitano aveva una grande passione. Adorava giocare a scacchi. Era anche molto bravo, per uno di quei misteriosi legami che uniscono malvagità e genio, e nessuno, da anni, era mai riuscito a batterlo, neanche il computer di bordo. Ebbene, il capitano vide le stelline bianche e nere e decise di fare una scacchiera unica al mondo. Su ogni stellina bianca montò un pezzo bianco, e altrettanto fece con le nere. Quindi le mise su una grande scacchiera di ossa di orso, e devo dire che il risultato era veramente splendido: la luminescenza delle stelline rendeva la scacchiera magica. Ma io notai subito che le stelline, fuori dall'acqua, stavano perdendo colore e appassivano, morivano, insomma. 

Una notte mi alzati dalla branda e andai di nascosto nella stanza del capitano. Mi avvicinai alla scacchiera, con l'intenzione di rubare le stelline, e nasconderle, o almeno farle rivivere un po' nell'acqua. Ma il capitano che era furbo e sospettoso, aveva munito la scacchiera di un segnale di allarme. Appena l'allarme scattò, balzò sul letto e gridò: - Maledetto mozzo! E' la tua seconda insubordinazione! Questa volta finirai a nuotare nello spazio! - 

Fui messo in cella. Sapevo ormai che le mie ore erano contate. Il codice di navigazione spaziale stabiliva che il capitano Garcia aveva diritto di vita e di morte sull'equipaggio. Eppure io, quella sera, non sentivo nessun dolore per la mia sorte: non facevo che pensare alla lenta agonia di quegli esseri, ridotti a pedine della scacchiera del capitano.

Il mattino dopo, Garcia in persona venne ad aprirmi la porta della cella. Rideva, ed io sapevo che quella risata annunciava qualche nuova crudeltà. 

- Caro De Leon - mi disse - sei veramente fortunato! I tuoi compagni ti vogliono bene, e hanno molto insistito perché ti dessi un'ultima possibilità. E io ho deciso di dartela, che diamine! Avrai salva la vita! A una condizione...che tu...ah, ah...mi batta a scacchi! Se io ti batto ti ucciderò nel modo che vorrò. Se sarai tu a vincere, naturalmente, tu ucciderai me: non è una gara ad armi pari? - e Garcia mi sghignazzò in faccia. 

Non era una gara ad armi pari. Il capitano sapeva benissimo che io conoscevo a malapena le regole del gioco, mentre lui era un maestro. Aveva inscenato questa commedia, perchè qualche amico nell'equipaggio, aveva coraggiosamente chiesto pietà di me; con questa macabra farsa voleva riaffermare il suo potere, e deriderci. Volle infatti che tutto l'equipaggio fosse presente alla partita. Ci sedemmo di fronte alla scacchiera, ed egli, bevendo la sua solita pinta di rhum, con un sogghigno disse: - Ecco! Muovi pure per primo! Ti do un ultimo vantaggio! Ora le hai vicine le tue care stelline, sei contento? Guarda che beffa però, saranno proprio loro a portarti nella tomba! - e rise ancora. 

Guardai la scacchiera, e i volti rattristati dei miei amici. Non sapevo proprio che fare. Stavo per dire su, basta con questa buffonata, mi uccida subito e facciamola finita, quando mi accorsi che una delle stelline, la pedina di regina, pulsava leggermente. Solo io potevo vederla, in quanto gli altri erano lontani dal tavolo e il capitano non aveva una buona vista. Con mio grande stupore, vide la stellina che iniziava a muoversi verso la casella che aveva davanti. Istintivamente, ne accompagnai il tragitto con la mano. Guardai, se qualcuno si fosse accorto di quello che era successo. Nessuno, tantomeno il capitano Garcia, che ruttò rumorosamente e disse: - Bene! Buona apertura! Pedina di regina! Hai mosso in fretta, ragazzo! Vuoi morire prima? -  e fece la sua mossa con il nero. 

Quando vidi pulsare la secondo stellina, ancora una pedina, un pensiero incredibile mi nacque in testa. Ma solo alla quarta mossa, quando la stellina di cavallo pulsò e mi indicò chiaramente con una delle sue punte di muovermi avanti a sinistra, capii cosa accadeva. Quasi svenni per l'emozione. Le stelline PENSAVANO! E non solo, ma in quei pochi giorni che erano state usate sulla scacchiera, avevano capito il gioco degli scacchi, e stavano giocando per me! Con quanta intelligenza? Molta, come capii, man mano che la partita proseguiva, dall'espressione del capitano Garcia. Dall'iniziale risata, egli era passato a un risolino preoccupato, che divenne ben presto isterico. Da buon giocatore qual era, si rendeva conto, mossa dopo mossa, che lo stavo attaccando con grandissima abilità.

Mi guardò negli occhi, con paura, quando la stellina alfiere guidò la mia mano scivolando in una posizione di attacco alla regina nera. Anche i miei amici si erano resi conto che qualcosa di strano stava accadendo, perchè li sentivo bisbigliare, e a farmi di nascosto cenni di tener duro. Il capitano cominciò a sudare, e a pensare più a lungo prima di ogni mossa. Ogni tanto scuoteva la testa, come ad allontanare il pensiero che quel giovane mozzo potesse veramente giocare come un grande maestro...no, mi pareva di leggere nel suo pensiero, no, è il caso che lo guida in una serie incredibilmente fortunata di mosse, ma primo o poi commetterà un errore da principiante qual'è.

Ma alla ventesima mossa, un attacco di regina, Garcia si rese conto che io stavo veramente giocando al suo livello. Iniziò a tremare:  non riusciva a capire. Impallidì, mentre gli mangiavo alfiere e torre. Le stelline, implacabili, lo attaccavano da ogni parte. Alla trentaseiesima mossa, si accorse che era quasi perduto. Mi guardava con terrore: capivo che più che la sconfitta e la probabile morte imminente, una domanda lo rodeva: cosa sta succedendo?  Come hai fatto a vincermi? Dove ho sbagliato? A quel punto, decisi di mostrarli la verità. La stellina di regina pulsò. Io non la toccai. Si spostò da sola, percorse due caselle, si fermò. Era uno strepitoso scacco matto di regina, cavallo e torre, una mossa da maestro.

Il capitano Garcia impallidì. Capì subito. Si alzò di colpo dalla scacchiera. Guardò ancora la stellina. Con un urlo, fuggì nella sua cabina. Pochi istanti dopo sentimmo il colpo. S'era sparato. Così finì il terribile capitano Garcia. Le stelline, rimaste troppo a lungo fuori dal loro elemento naturale, morirono tutte durante la notte. Non prima, però, di avere salvato la vita dell'unica persona che le aveva trattate umanamente. Perchèè umane erano, se questo aggettivo ha qualche valore, di questi tempi"




Tratto da : "Terra" - Stefano Benni 



domenica 14 febbraio 2010

CHI SIAMO? DA DOVE VENIAMO? DOVE ANDIAMO?






 
















Chi siamo? Nessuno. Da dove veniamo? Dal nulla. Dove andiamo? Da nessuna parte. Non credo ci voglia tanto studio per arrivare alle sopracitate conclusioni. Filosofi e teologi si sono arrabattati il cervello per secoli e secoli cercando una risposta a queste domande. E' tanto semplice, invece. La verità è sotto ai nostri occhi da sempre, eppure per tutta la vita non abbiamo fatto altro che chiederci quale sia il nostro scopo. La verità è che lo scopo non esiste. Lo so che la mia visione può essere presa per pressapochista nonché per superficiale,  ma sono i fatti che parlano, non io. Come faccio a dire dove andiamo? Non lo può sapere nessuno finché non ci si arriva. Eppure tutti a sblaterare, a straparlare dell'aldilà, della reincarnazione, in tutte quelle cose che la gente vuole sentirsi dire per vivere almeno un po' serenamente. Perchè dobbiamo inventarci le cose? Perchè dobbiamo darci uno scopo? Io sono una di quella che nella reincarnazione ci crede, per esempio. E il principio della reincarnazione è quello di passare attraverso molte vite per raggiungere la perfezione delle spirito. E allora? Intendo, anche se così fosse, cosa cambierebbe? Cancellerebbe forse le sofferenze di una vita? O le gioie? Mia madre dice che è la fede che ti fa credere alle cose. Che anche se non sappiamo con certezza se esiste o meno un paradiso, deve essere la fede a farci andare avanti per scoprirlo. Io? Io penso che se non ho le prove concrete non credo a niente. Credo se vedo. Magari un giorno, al cospetto di un signore con la barba bianca dovrò dire di ricredermi. Ma anche allora, cosa cambierà? La verità è che esistiamo perchè scientificamente è successo così. La verità è che siamo il prodotto di un'evoluzione, di cambiamenti che nel corso dei millenni ci hanno fatto diventare quello che siamo. La verità è che non c'è un posto dove andare, dove arrivare. Semplicemente siamo qui e dobbiamo vivere. Non ha un senso, lo so. Non ha neanche un motivo. Però è quello che vedo ed è l'unica cosa in cui io riesca a credere ciecamente. Il resto lo imparerò a tempo debito, se ci sarà qualcosa da imparare. Viviamo di idoli, di possibilità che ci creiamo per non soccombere e semplicemente per non voler vedere che siamo qui per qualcosa che non esiste. Ci inventiamo la storia, ci inventiamo le religioni, ci inventiamo l'amore, i sentimenti, le sensibilità. Cerchiamo di essere buoni, corretti, onesti, per non finire all'inferno o per non dover ritrovarci a vivere una vita meschina la prossima volta. Abbiamo inventato gli agi, il progresso, convinti che il nostro scopo fosse quello di stare al passo coi tempi e di dover lasciare un segno ai posteri. Io stessa scrivo perchè spero che un giorno, chiunque passerà di qui o prenderà in mano una mia agendo o il quaderno di poesie possa dire "interessante questa Leanne". La verità è che se mai questo dovesse succedere, io sarò morta. E quando una persona è morta, è morta e basta. Forse non esiste neanche la storia dell'anima. Iniziamo perchè dobbiamo iniziare. Finiamo perchè dobbiamo finire. C'è la vita fino a quando ci è concessa. E c'è il nulla quando ci verrà chiesto di abbandonarla. Questo non significa di attendere la fine di tutto passivamente. Come si usa dire di solito, la vita è una...e visto che nella vita non c'è una sola certezza, meglio darsi da fare e fare quello che ci fa stare meglio. Togliamoci di dosso le domande scomode, le inutili paranoie, le convenzioni religiose. Cerchiamo di essere quello che siamo e basta. Seguiamo noi stessi e non le regole che ci vengono imposte per essere qualcosa di migliore dopo e per andare in un posto più bello. La vita è una sola...e se dopo questa vita devo rimanere senza niente, tanto vale viverla come si deve e basta.