martedì 15 settembre 2009


Sono solo una mano che scrive.


Due dita che stringono una penna


e la fanno scorrere veloce


su un foglio bianco.


Sono solo due occhi che guardano,


seduti su una panchina,


il mondo che li circonda.


Sono una bocca chiusa


l'orecchio teso


ad ascoltare i brusii,


le vostre vite,


il rumore dei vostri passi sulla ghiaia.


Sono solo un pittore di pensieri,


disegno con le parole


quel che l'anima vuole


gentile o no che sia.


Sono solo ingenuità,


purezza, umiltà.


Sono l'essenza e il concreto


di semplici visioni.


Sono un'ombra che si perde


una presenza costante


un soffio che vi scosta i capelli dal viso


la malinconia che non avete vissuto.


Sono carta straccia,


polpastrelli tinti di inchiostro nero.


Sono solo lettere


solo sonetti.


Sono solo metriche


rime e cadenze.


Sono solo un poeta.

domenica 13 settembre 2009

HO STRETTO LA MANO AL MAESTRO...DUE VOLTE!

“Pavana è un ricordo lasciato tra i castagni dell'Appennino”.


A volte bisogna accontentarsi. E' necessario che ci si renda conto che non si deve esagerare, che ogni cosa che ci viene data è un regalo e non possiamo sempre pretendere di più. Ho stretto la mano al maestro, due volte. E questo non mi è bastato. Avrei voluto parlare un po' con lui, avrei voluto ritrovarmi in una serata goliardica insieme a lui, alla sua chitarra e alle sue canzoni. E ci è mancato poco. Forse è proprio per questo che non mi era bastato bussare alla sua porta, quasi entrare in casa sua, trattenuta da Fabio che mi faceva presente che anche se la porta era aperta, era una proprietà privata e la violazione di domicilio è un reato. Non mi era bastato dirgli con gli occhi lucidi e le gambe che mi tremavano “Maestro, siamo venuti a disturbarla”...”Ditemi” ha proferito con la sua voce cavernosa ma bonaria. “Niente, volevamo ringraziarla”....poi devo aver detto di tutto tranne qualcosa di intelligente e interessante...tanto che il telefono di casa sua ha suonato. In realtà abbiamo il sospetto che nella tasca dei pantaloni tenga un telecomando che faccia suonare il telefono a suo piacimento per liberarsi dei rompicoglioni. Comunque una foto con la sua mole appoggiata sulla mia spalla. Un “ragazzi, adesso devo andare perchè stavo scrivendo” e la speranza di trovare qualcosa di suo e di nuovo a brave da ascoltare. E siamo andati via. Io non mi tenevo più, mentre attraversavamo il portone verde passando per la stradina ghiaiata pensavo che sarei potuta anche morire che tanto nella mia vita avevo fatto tutto quello che volevo fare. “ho stretto la mano al maestro...due volte” continuavo a ripetere tra risolini isterici mentre passavamo da un ciglio all'altro della Porrettana.


Per tutto il pomeriggio, non ho fatto altro che sperare che in questi giorni si presentasse al Mulino di Chicon dove eravamo alloggiati. Visto che lui e i proprietari sono parenti, visto che in quel Mulino lui ci è cresciuto, avrebbe potuto benissimo fare un giro in quei giorni. Ma si sa, io sono una che con la fantasia viaggia fortissimo, e quella speranza la avevo accantonata mentre mi stavo vestendo per scendere a valle ed andare a cena. Dopo aver mangiato in uno dei più squallidi ristoranti di tutta Italia, siamo tornati verso la nostra dimora...e ci siamo accorti di un discreto numero di auto parcheggiate nel vialetto. Appena scesa dalla macchina, ho guardato verso le finestre della cucina del Mulino. E non potevo credere ai miei occhi...il Maestro era li, vestito come il pomeriggio, con il suo maglioncino rosso e la camicia azzurra. Ho iniziato a saltare e ho cominciato a pensare che non sono poi così fantasiosa come credevo. Cercavo espedienti per entrare, ma non mi sembrava educato disturbare una cena intima come quella. Ho pensato che avrei potuto inventarmi qualcosa, una bomba, lo scoppio della caldaia. Ma alla fine non ho fatto altro che uscire ogni mezz'ora per controllare se avessero finito di mangiare. In cuor mio speravo si mettessero a cantare, così mi sarei aggregata al coro e via andare. Ma non è successo. Nascosta dietro alle tende della nostra camera ho visto il Maestro scendere per la stradina insieme alla sua compagna e ad alcuni amici. Avrei potuto salutarlo, avrei potuto fermarlo. Ma non l'ho fatto. Non l'ho fatto perchè appunto ci si deve accontentare. La mia dose l'avevo già avuta. Il mio giorno magico, la mia illuminazione c'era già stata, se pur breve, e non potevo chiedere altro. Mi sono limitata a guardare la sua schiena andarsene e a sentire Fabio che continuava a dire che alla fine è una persona come tutte le altre. Si, è vero, è una persona come tutte le altre, una persona che non si rende conto di quanto possa smuovere gli animi della gente. Non si rende conto dei brividi che le sue parole provocano. Nella sua umiltà, nella sua immensa modestia, lui vive bene. E se è una persona così è anche merito dei luoghi in cui è cresciuto. Perchè qui, in questo post, non c'è solo Guccini. Ma c'è anche Pavana. Perchè Pavana è un posto che si conosce solo perchè ne parla lui, ma è uno di quei luoghi che dovrebbero essere visti. Pavana è questo paesino che è diventato comune da qualche mese. Piccolo, piccolissimo, poche case, un cimitero, una chiesa (ovviamente chiusa. Io non lo so, ma tutte le chiese in cui vorrei entrare, hanno questa cosa dell'essere sempre chiuse quando vado io). Però Pavana è divisa in due. C'è quella di sopra, più moderna, con un paio di strade in cui si passa anche in macchina, e Pavana di sotto. Un agglomerato di casupole arrancate in salita, con viottoli acciottolati e bambini che corrono giù per le scarpate. Pavana per me è il rumore del Limentra che scorre vicino al Mulino, il verso dei cinghiali nel cuore della notte. Pavana sono quattro cuccioli di gatto che hanno giocato con me sulle scalinate, vicino a un portone verde. Pavana è un'anziana signora che si è affacciata da un cancello e ci ha fatti entrare nel suo giardino perchè vedessimo la sua tartaruga e poi in casa per mostrarci i quadri di suo figlio pittore. Pavana è un profumo che non sentivo più da anni, un retrogusto di uva matura e miele di acacia. E' l'autunno che si intravede nel giallo delle foglie che oscillano e cadono portate dal vento. E' una diga in mezzo all'Appennino. Pavana è il mascarpone delizioso della Caciosteria. E' la gentilezza e la semplicità di Silvano e Maria Rosa. E' un sentiero segnato, uno zaino sulle spalle (di fabio), e la sensazione di essere arrivati in un posto giusto. Pavana è il nulla. E' il silenzio dei pensieri. E' il cane della casa all'angolo che abbaia ma non irrita. Pavana è divisa da una strada trafficata eppure è come se quella strada non esistesse. E' un paese fantasma, che si perde nella nebbia di novembre. E' una malinconia che ci si porta dentro. E' la sostanza delle piccole cose, dei sentimenti puri. Pavana è un ricordo che mi porterò dentro per sempre. E' un posto sicuro, un angolo di sospiri e giorni che passano senza cambiare nulla.





















 

lunedì 7 settembre 2009

foto dal web


Aspettavi il treno delle otto,


chiusa in un cappotto grigio.


I tuoi occhi erano di uno strano ceruleo


e i capelli biondi nascosti da un cappellino


stile anni trenta.


Al collo portavi una sciarpa


e i suoi colori,


per un istante,


hanno portato alla memoria


luoghi magici che vedevo solo nei sogni,


da bambino.


C'era la nebbia quel mattino.


Mi guardavi distratta


e, di tanto in tanto,


spostavi lo sguardo


dalla punta dei tuoi stivali di pelle


alla punta dei miei mocassini marroni.


Sentivo il rumore delle onde in lontananza,


potevo immaginare l'odore


del mare in tempesta.


Arrivò il treno,


il nostro treno.


E mentre salivo sul predellino


tirasti la manica della mia giacca.


Un sorriso di denti bianchissimi,


una fitta al mio povero cuore.


"Le maree sono più facili da dipingere


se vedi il sole specchiarsi ad un muro"


dicesti.


La scia del tuo profumo


si dissolse tra la folla.


La mia unica certezza


era che quel viaggio lo avrei fatto da solo.


Il mio unico tormento


l'essermi chiesto


per tutta la vita


cosa avessi voluto dire


e se mai,


un giorno,


avrei potuto capirlo.

giovedì 3 settembre 2009

C'E' SEMPRE UN PERCHE'

foto dal web


C'è un momento. E' il momento in cui tutto diventa chiaro, in cui tutto, ad un certo punto, sembra semplice. E' il momento  in cui lei tende le piccole braccia verso di te, come se ti conoscesse da sempre, come se si fidasse. E forse proprio perchè si fida, con le sue manine prende le tue mani e fa leva per alzarsi. Sa che la proteggi, sa che con te come sostegno non può accaderle nulla. E' in quel momento che capisci cos'è l'istinto materno, cosa scatta nell'animo delle donne quando iniziano a provare l'irrefrenabile desiderio di mettere al mondo un figlio. Non è solo il fatto di poter dare alla luce una nuova vita, non è solo l'istintiva necessità di prendersi cura di qualcuno. E', forse anche un po' egoisticamente, il bisogno di sentirsi indispensabili. Lei sta lì, ti guarda, ride, accenna qualche passettino barcollante per poi rimettersi a carponi. Lei sta lì e sa che può contare solamente su di te, sulle tue braccia forti che la sorreggono, sulla mano che le appoggi davanti alla faccia perchè non sbatta il naso mentre sta per cadere. E' la necessità di sapere che qualcuno necessita di te per crescere e camminare. E' la necessità di sentire che servi a qualcosa...che servi a qualcuno.

foto dal web


Te ne sei andata in un giorno giallo


assorbita da polvere e umidità.


C'era la luna piena quella notte


e tutti ti hanno vista sparire.


Cadeva il silenzio


sulla piazza deserta,


il sole condensava ciotoli arroventati.


E sulla strada offuscata


pedalava un bimbo allegro


forse ignaro del tuo addio.


Te ne sei andata in un giorno giallo


un giorno in cui indossavi una maglia arancione


e dei pantaloni larghi.


Ho spiato dai vetri,


nascosto dalle tendine verdi ricamate.


Mancava una rosa rossa nel giardino


e il tuo sangue


gocciolava ancora tra le sue spine.