Abbiamo voglia a dire di avere speranza. Dal pulpito il prete incita alla preghiera, a credere in un Dio che ci pone delle domande e a darci delle risposte. Strano...ho sempre pensato che Dio fosse onnipotente e onnipresente. Forse è per questo che non credo più. Mi hanno sempre fregata. Dio non c'è. E' inutile. Come puoi dire che esiste un Dio quando davanti hai due bare bianche, quando intorno a te vedi genitori piangere la morte delle proprie figlie. Dio non esiste. Questo essere supremo che regola le nostre vite, che dovrebbe preservarci perchè lo preghiamo, che dovrebbe sostenerci nei momenti di dolore...ma per favore! E' destino. E al destino non puoi dire "Scusa, aspetta un attimo, non sono pronto". Il destino gioca a dadi e vince sempre. Fa sempre 6...o 12...a seconda di quanti dadi tira. Non c'è scampo. Ti prende e ti porta via. Una vita...due vite...e tu sei lì e ti senti impotente davanti a questa forza sconosciuta, che non ha un volto, non ha un nome. Fato. Il bizzarro modo che ha la vita di prenderti da parte e dirti di non abbassare mai la guardia. C'è un mondo dietro tutto questo, il mistero assoluto della morte. Sappiamo che c'è, sappiamo che tocca a tutti, ma il motivo per cui sia toccato a due ragazze appena maggiorenni anzichè al vecchietto centenario, porca puttana, mi sfugge. Con tutto il rispetto per il vecchietto centenario. C'è un momento in cui queste domande te le fai...è il momento in cui incroci lo sguardo del padre di una ragazza che non c'è più...e lui accenna un sorriso, come per farti forza...lui a te!...Come fa? Come fa a non vedere che stanno sigillando in un loculo una bara con dentro la sua bambina? La stessa bambina che ha cresciuto, che era così grazie a lui? La bambina per cui aveva preso bracciali e collane al mare pochi giorni prima. Ci deve essere un tasto nell'organismo umano, un tasto che viene attivato in automatico per non sentire il dolore, che anestetizza il sangue che brucia e si mischia alle lacrime che non possono uscire. Il tasto off. Forse lo abbiamo anche noi. Perché non capisco come possa stare in piedi una madre che perde il frutto di quello che ha portato dentro per nove mesi, una madre che ha pianto la prima volta che ha visto sua figlia camminare, o che ha gioito quando ha sentito la sua prima parola. Ci deve essere un modulatore...un meccanismo interiore che permette all'uomo di andare avanti...forse si chiama istinto di sopravvivenza...Ma non so cosa voglia dire sopravvivere al proprio figlio. Al solo pensiero vorrei morire. Forse è anche questo uno dei motivi per cui, egoisticamente, non voglio fare figli. E' il dolore più insopportabile, più lontano da ogni immaginazione. Eppure si va avanti...ne ho visti tanti che hanno continuato la loro vita. E hanno trovato altre strade, canali in cui versarsi per sentire meno male...queste esperienze che a qualcuno capita di dover affrontare, voglio sperare, devono avere un motivo, devono portarci su una via di consapevolezza..."non abbassare mai la guardia", ti dice il destino mentre ritira i dadi dal tavolo verde e tutte le tue fiches spariscono in una nuvola di fumo. E a noi non rimane niente. Solo il rumore della calce sui mattoni, solo qualche fiore sparso sui ciottoli bianchi. Rimangono le parole che rieccheggiano nell'aria, i pianti, gli abbracci, le pacche sulle spalle. La gente se ne va, lascia libero lo spazio, lascia il posto al dolore. Rimane il vuoto incolmabile, rimane la perdita. Rimane una bara chiusa, un corpo che non crescerà più, che non potrà più vivere. Rimane l'anima, forse a vegliare, forse se ne è già andata per ricominciare. Rimangono due genitori che stasera torneranno a casa e si fermeranno sulla porta di una camera vuota, senza musica, senza voci. Il nulla. Dopo tutto, rimane il nulla.