domenica 12 giugno 2011

"IL CONIGLIO VELENOSO"




"La moglie di Marcovaldo quel mattino non sapeva proprio cosa mettere in pentola. Guardò il coniglio che il marito aveva portato a casa il giorno prima, e che ora stava in una gabbia improvvisata, piena di trucioli di carta. "E' venuto proprio a proposito, - si disse. - Soldi non ce n'è; il mensile se n'è già andato in medicine extra che la Mutua non paga; le botteghe non ci fanno più credito. Altro che far l'allevamento, o aspettare Natale per metterlo arrosto! Noi saltiamo i pasti e ancora dobbiamo ingrassare un coniglio!"

- Isolina, - disse alla figlia,  - tu sei già grande, devi imparare come si cucinano i conigli. Comincia ad ammazzarlo e a spllarlo e poi ti spiego come devi fare. 

Isolina stava leggendo un giornale di novelle sentimentali. - No, - mugolò, - comincia tu ad ammazzarlo e a pelarlo, e poi starò a vedere come lo cucini. 

- Brava! - disse la madre. - Io d'ammazzarlo non ho cuore. Ma so che è una cosa facilissima, basta prenderlo per le orecchie e dargli una forte botta sulla collottola. Per spellarlo poi vedremo. 

- Non vedremo niente, - disse la figlia senza alzare naso dal giornale,  - io colpi sulla collottola a un coniglio vivo non ne do. E a spellarlo non ci penso neanche. 

I tre bambini erano stati a sentire questo dialogo a occhi spalancati. 

La madre restò un po' soprappensiero, li guardò, poi disse:  - Bambini...

I bambini, come d'intesa, voltarono le spalle alla madre e uscirono dalla stanza. 

- Aspettate bambini! - disse la madre. - Vi volevo dire se vi piacerebbe uscire col coniglio. Gli metteremo un bel nastro al collo e andate un po' a passeggio. 

I bambini si fermarono e si guardarono negli occhi. - A passeggio dove? - chiese Michelino. 

- Bè, potete fare quattro passi. Poi andate a trovare la signora Diomira, le portate il coniglio e le dite se per favore ce lo ammazza e ce lo spella, lei che è così brava. 

La madre aveva toccato il punto giusto: i bambini, si sa, restano impressionati dalla cosa che a loro piace di più, e al resto preferiscono non pensarci. Così trovarono un lungo nastro color lilla, lo legarono attorno al collo della bestiola e l'usarono come guinzaglio, strappandoselo di mano e tirandosi dietro il coniglio riluttante e mezzo strangolato. 

- Dite alla signora Diomira,  - raccomandò la madare, - che poi può tenersi un cosciotto! No, meglio dirle: la testa. Insomma: veda lei. 

I bambini erano appena usciti quando l'alloggio di Marcovaldo fu circondato e invaso da infermieri, medici, guardie e poliziotti. Marcovaldo era in mezzo a loro più morto che vivo. - E' qui il coniglio che è stato portato via dall'ospedale? Presto, indicateci dov'è senza toccarlo: ha addosso i germi di una tremenda malattia! - Marcovaldo li condusse alla gabbia, ma era vuota.  - Già mangiato? - No, no! - E dov'è? - Dalla signora Diomira! - e gli inseguitori ripresero la caccia. 

Bussarono dalla signora Diomira. - Il coniglio? Che coniglio? Siete pazzi? - A vedersi la casa invasa da sconosciuti, in camice bianco e in divisa, che cercavano un coniglio, alla vecchietta venne quasi un colpo. Del coniglio di Marcovaldo non sapeva niente. 

Infatti, i tre bambini, volendo salvare il coniglio dalla morte, pensararono di portarlo in un posto sicuro, giocarci un poco e poi lasciarlo andare; e invece di fermarsi al pianerottolo della signora Diomira, decisero di salire fino a un terrazzo che c'era sui tetti. Alla madre avrebbero detto che aveva strappato il guinzaglio e era scappato. Ma nessun animale pareva così poco adatto alla fuga quanto quel coniglio. Fargli salire tutte quelle scale era un problema: si ranicchiava spaventato a ogni gradino. Finirono per prenderlo in braccio e portarlo su di peso. 

Sul terrazzo volevano farlo correre: non correva. Provarono a metterlo su un cornicione per vedere se camminava come i gatti: ma pareva che soffrisse le vertigini. Provarono a issarlo su un'antenna della televisione per vedere se sapeva stare in equilibrio: no, cascava. Annoiati, i ragazzi strapparono il guinzaglio, lasciarono libera la bestia in un punto dove le si aprivano davanti le vie dei tetti, mare obliquo e angoloso, e se ne andarono. 

Quando fu solo, il coniglio prese a muoversi. Tentò alcuni passi, si guardò intorno, cambiò direzione, si girò, poi a piccoli balzi, a saltelli, prese a andare per i tetti. Era una bestia nata prigioniera: il suo desiderio di libertà non aveva larghi orizzonti. Non conosceva altro bene della vita se non il poter stare un po' senza paura. Ecco, ora poteva muoversi, senza nulla intorno che gli facesse paura, forse come mai prima in vita sua. Il luogo era insolito, ma una chiara idea di cosa fosse e cosa non fosse solito non aveva potuto mai crearsela. E da quando dentro di sè sentiva rodere un male indistinto e misterioso, il mondo intero lo interessava sempre meno. Così andava sui tetti; e i gatti che lo vedevano saltare non capivano chi era e arretravano timorosi. 

Intanto, dagli abbaini, dai lucernari, dalle altane, l'itinerario del coniglio non era passato inosservato. E chi cominciò a esporre catini d'insalata sul davanzale spiando da dietro alle tendine, chi buttava un torsolo di pera sulle tegole e ci tendeva intorno un laccio di spago, chi disponeva una fila di pezzettini di carota sul cornicione, che seguitavano fino al proprio abbaino. E una parola d'ordine correva in tutte le famiglie che abitavano sui tetti: -Oggi coniglio in umido - o - Coniglio in fricassea - o - Coniglio arrosto. 

La bestia si era accorta di questi armeggii, di queste silenziose offerte di cibo. E sebbene avesse fame, diffidava. Sapeva che ogni volta che gli uomini cercavano d'attirarlo offrendogli cibo, capitava qualcosa di oscuro e doloroso: o gli conficcavano una siringa nelle carni, o un bisturi, o lo cacciavano di forza in un giubbotto abbottonato, o lo trascinavano con un nastro al collo...E la memoria di queste disgrazie facava una cosa sola col male che sentiva dentro di sè, col lento alternarsi d'organi che avvertiva, col presentimento della morte. E con la fame. Ma come se di tutti questi disagi sapesse che solo la fame poteva essere alleviata, e riconoscesse che questi infidi esseri umani gli potevano dare - oltre a sofferenze crudeli - un senso - di cui pure aveva bisogno - di protezione, di calore domestico, decise di arrendersi, di prestarsi al gioco degli uomini: andasse poi come voleva. Così, cominciò a mangiare pezzettini di carota, seguendo la scia che, lo sapeva bene, l'avrebbe fatto ancora prigioniero e martire, ma tornando a gustare forse per l'ultima volta il buon sapore terrestre degli ortaggi. Ecco si avvicinava alla finestra dell'abbaino, ecco che una mano si sarebbe protesa a ghermirlo: invece, tutt'a un tratto, la finestra si chiuse e lo lasciò fuori. Questo era un fatto estraneo alla sua esperienza: una trappola che si rifiutava di scattare. Il coniglio si volse, cercò gli altri segni di insidia intorno, per scegliere a quale d'essi gli conveniva arrendersi. Ma intorno le foglie d'insalata venivano ritirate, i lacci gettati via, la gente affacciata spariva, sbarrava finestre e lucernari, i terrazzi si spopolavano. 

Era successo che una camionetta della polizia aveva attraversato la città, gridando da un altoparlante: - Attenzione, attenzione! E' stato smarrito un coniglio bianco dal pelo lungo, affetto da una grave malattia contagiosa! Chiunque lo rintracci sappia che la sua carne è velenosa, e anche il contatto può trasmettere germi nocivi! Chiunque lo veda lo segnali al più vicino posto di polizia, ospedale o caserma dei pompieri!

Il terrorej si sparse sui tetti. Ognuno stava in guardia e appena avvistava il coniglio che con un floscio balzo passva da un tetto a quello vicino, dava l'allarme e tutti sparivano come all'avvicinarsi d'uno sciame di locuste. Il coniglio procedeva in bilico sulle cimase; questo senso di solitudine, proprio nel momento in cui aveva scoperto la necessità della vicinanza dell'uomo, gli pareva ancora più minaccioso, intollerabile. 

Intanto il cavalier Ulrico, vecchio cacciatore, aveva caricato il suo fucile con cartucce da lepre, ed era andato ad appostarsi su un terrazzo, dietro un fumaiolo. Quando vide nella nebbia affiorare l'ombra bianca del coniglio, sparò; ma tanta era la sua emozione al pensiero dei malefici della bestia, che la rosa di pallini grandinò un po' discosto sulle tegole. Il coniglio sentì la fucilata rimbalzare intorno, e un pallino trapassargli un orecchio. Comprese: era una dichiarazione di guerra; ormai ogni rapporto con gli uomini era rotto. E in dispregio a loro, a questa che in qualche modo sentiva come una sorda ingratitudine, decise di farla finita con la vita. 

Un tetto coperto di lamiera scendeva obliquo, e terminava nel vuoto, nel nulla opaco della nebbia. Il coniglio ci si posò con tutte e quattro le zampe, cautamente dapprima, poi abbandonandosi. E così scivolando, divorato e circondato dal male, andava verso la morte. Sul ciglio, la grondaia lo trattenne un secondo, poi sbilanciò giù...

E finì tra le mani guantate di un pompiere, issato in cima a una scala portatile. Impedito fino a quell'estremo gesto di dignità animale, il coniglio venne caricato sull'ambulanza che partì a gran carriera verso l'ospedale. A bordo c'erano anche Marcovaldo, sua moglie e i suoi figlioli, ricoverati in osservazione e per una serie di prove di vaccini"







Tratto da "Marcovaldo" - Italo Calvino







PS: Lessi questo libro in età abbastanza giovanile e spensierata e se devo dire che me lo ricordavo così triste, proprio non mi viene. La coscienza, l'esperienza, fa rileggere libri sotto un'altra ottica. Questo pezzo è di un angoosciante che mi ha fatta piangere. Pieno di metafore di vita che si vive così, tanto per vivere. E anche per il coniglio si, che metafora o no, mi ha ammazzato. Continuiamo così...facciamoci del male!