lunedì 22 novembre 2010

LO ZIO DINO






 



Cimitero  monumentale di Forlì - "Il tangibile riposo dell'anima" - foto Leanne





Signori e signore, si muore. Io ve lo dico, ve lo voglio ricordare. E non voglio ricordarvelo perché sono una bastarda (cioè, anche un po' per quello), ma ve lo ricordo perché a me lo ricordano e allora da sola, con questa consapevolezza, io non ce la faccio a vivere. E stanotte ci ha lasciati anche lo zio Dino. Io con lo zio Dino non è che abbia mai avuto un gran rapporto, non ho ricordi, giuro, se me lo chiedete io delle zio Dino non ricordo niente, quando stava bene. Ma me lo ricordo dopo, quando è stato male. L'ho visto poche volte, ma tutte le volte che l'ho visto mi si stringeva un nodo alla gola e mi veniva da piangere. Stava lì, nel suo lettino con le sponde di ferro. Non parlava, ma ti guardava, con due occhi fissi e lucidi che ti spaccavano il cuore a metà. E poi gli prendevo la mano e lui me la stringeva, lo salutavo e lui, lo so, capiva chi ero. Forse, una volta, ha anche accennato un sorriso. Erano quasi due anni che stava così e quello che dicono tutti è "ha smesso di soffrire". Quante volte si dice, quando qualcuno muore, che ha smesso di soffrire, come a dare un motivo alla morte, come a vederla la soluzione ad ogni male. Io non lo so se lui, veramente, avesse più voglia di morire che di vivere. Voi lo potete dire? Perché quando guardavo quegli occhi azzurri e quel corpo magro, tutto pelle e ossa, io la vita ce la vedevo. Per quanto potesse essere faticosa, per quanto difficile potesse essere per lui non potersi muovere, non poter parlare, chi ce lo dice che lui avesse davvero voglia di morire? Io non lo so, voi neppure e forse neanche chi gli è stato vicino, chi lo ha accudito può dirlo con certezza. Forse si, forse no. Forse sta meglio per davvero. 



Signori e signore, io ve lo dico, prima o poi tutti si muore. 



E rimango qui, adesso, sapendolo una volta in più, con la sensazione di quella mano che stringe la mia mano e mi fa capire che è un saluto. Rimango qui, con una lacrima che punge l'occhio e un altro pezzo di vuoto. 


domenica 14 novembre 2010

DI UNA DOMENICA MATTINA D'AUTUNNO




 



Echeggia il suono dei passi tra il silenzio ovattato della nebbia, la nebbia che nasconde le case lontane. Il fumo dei camini mi entra nelle narici e mi fa pizzicare il naso, con forza, quasi a farmi starnutire. Sola, senza musica nelle orecchie, sola, con i rumori lievi della campagna. Uno stormo di uccelli, di colpo, parte a gran voce da un cespuglio celato dalla foschia. Mi fermo a guardare quegli uccelli, come se quel manto denso che li protegge fosse il loro luogo sicuro. E capisco che è anche il mio luogo sicuro. Il luogo sicuro dei ricordi e della serena nostalgia. Mentre cammino, tornano alla mente le domeniche mattina di quando ero piccola, il rumore del tornio dell'officina di mio babbo, io e la mia berrettina rosa lo raggiungevamo per giocare con pentolini di acciaio sulla stufa accesa da poco e per coccolare gli ultimi gatti arrivati. C'è odore di casa in quell'aria che respiro a pieni polmoni, odore di casa mia, della mia prima casa, con le foglie dei ciliegi morte, cumuli arancioni e gialli di resa infreddolita alla base di un tronco che tra qualche mese darà comunque ancora vita. C'è odore di quello che sono stata in questa domenica mattina d'autunno dove il fiato si condensa ad ogni mio passo e le guance mi pungo per il freddo. C'è mia madre che grida alla finestra che il pranzo è pronto e c'è il profumo delle sue tagliatelle al ragu che si sente fin dalle scale. Ci sono rumori di pentole che bollono nelle case contadine, dove sembra che tutto dorma ancora anche se è mattino inoltrato, c'è un cane che abbaia e mi viene incontro fermandosi al cancello ma non si vede il padrone. Come una strada fantasma quella che sto percorrendo, mi inghiotte nel suo passaggio, fatto di cose piccole nascoste e misteriose. Mi risucchia e mi mangia, masticandomi per bene, rigettandomi appena la nitidezza della città si avvicina. Ci sono io, quella di sempre, quella che non è mai come gli altri vorrebbero, ma quella che ama quello che è. Ci sono io, come sono stata e come sono. Io, che cammino tra pensieri gelati in ragnatele che piangono rugiada.